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L'eternità? Che non sia noiosa!

di Armando Massarenti

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26 settembre 2009


«Milioni di persone desiderano vivere in eterno, ma non sanno che cosa fare in una piovosa domenica pomeriggio». Si chiude con questa citazione il piccolo, prezioso libro di Eirik Newth, Perché si muore? Breve storia della fine (Salani). È prezioso perché affronta l'argomento come si trattasse di un qualunque altro tema di divulgazione scientifica. Descrive ogni aspetto della morte – fisiologico, psicologico, religioso, culturale - e non è falsamente consolatorio. Se non, un pochino, proprio nel capitolo finale, laddove, sulla grande questione su cosa ci aspetta dopo la morte, si legge che «è bello vivere in un mondo che riserva ancora dei segreti. Come sarebbe noioso se avessimo la risposta a tutto! Invece siamo così fortunati che il mistero più grande dell'universo è qualcosa a cui un giorno avremo tutti una risposta». Leggendolo mi è venuto in mente più volte Leopardi, per diverse ragioni. Una è quella che spiega un finale così poco convincente: «Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a essere credute». Una forza d'animo che non manca a questo piccolo libro. Ma Leopardi, una volta scrollatogli di dosso i pregiudizi sul suo inguaribile pessimismo, sa essere anche più convincentemente consolatorio. E persino leggiadro nel tirare le conseguenze sulla vanità della vita: «Tutto è follia fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto. Tutto è vanità fuorché le belle illusioni e le dilettevoli frivolezze». Di fronte alla «strage delle illusioni», così necessarie per vivere, egli enuncia, come rimedio, la necessità della «distrazione». Della quale ha in realtà una visione assai elevata. Ritiene necessari «sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre più attivi e più occupati», in un'opera «aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione». Questa è la «distrazione». Una volta avviato un processo di civiltà, e di conoscenza disincantata della realtà e della nostra condizione, che in sé provoca infelicità, e noia, non c'è altro rimedio che un affinamento continuo di sé, della propria cultura, delle proprie conoscenze. Senza fine.

26 settembre 2009
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